sabato 28 ottobre 2017

Tutto di te

Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore (cf. Mt 22,34-40). In questa domenica Gesù viene nuovamente interrogato e messo alla prova, questa volta dai farisei, i fedeli osservanti della Torah, la Legge. La domanda riguarda il grande comandamento. Chiedono a Gesù, che aveva ormai la fama del maestro ispirato, quale esso sia. Gesù risponde aprendo la Sacra Scrittura, citando in questo caso il Deuteronomio, con una leggera variante. Dice infatti: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. E aggiunge: “Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso”.

Due sottolineature. La prima: la totalità d’amore che Gesù richiede. L’amore per Dio se è tale non può che essere radicale, coinvolgere tutto l’uomo nel suo essere e operare. Non può esserci una divisione a compartimenti stagni, non esiste la separazione tra sacro e profano, non ci sono zone della nostra vita in cui Dio non può entrare. L’amore per Dio quando è autentico per sua essenza è pervasivo, penetra ovunque, impregna ogni atomo del nostro essere e crea in noi un dinamismo di donazione, ci cambia da dentro. Perciò si estende poi anche alle relazioni col prossimo. Se l’amore è autentico non può sopportare di amare Dio e odiare il prossimo. Perché l’amore dell’uomo è una partecipazione all’amore di Dio, dal quale l’uomo lo riceve come da una sorgente. Se lo accoglie in modo trasparente, non potrà non riversarlo sugli altri. Allora comprendiamo cosa stia a cuore a Gesù: che accogliamo il suo amore, che gli apriamo il cuore, che ci rendiamo disponibili alla sua azione. Sarà poi il suo amore a lavorare in noi e attraverso di noi.

Dio è amore, dichiara san Giovanni nella sua sorprendente Lettera. Cioè Dio per natura, per essenza esce da se stesso e si fa dono, è una necessità sua interna, proprio come il sole non può fare a meno di riscaldare le superfici sulle quali si posa. Non ha barriere, come quelle invece che l’uomo costruisce attorno al suo cuore per difendersi dalla vita. Allora capiamo quanto sia distante lo spirito di Gesù dalla lettera dei farisei, che per essere sicuri di potersi meritare questo amore seguivano 613 precetti, che erano le modalità pratiche e quotidiane in cui avevano tradotto le Dieci parole che Dio aveva dato al suo popolo sul Sinai. In quel modo si mettevano la coscienza a posto, mentre dentro non permettevano all’amore di cambiarli. Gesù non nega l’importanza della legge, delle norme, che servono per regolare e gestire le forze vitali, darle loro una forma. Non vuole però che ci si limiti a questo, senza metterci il cuore, senza coinvolgersi in una relazione vera con Lui. L’amore – e ne facciamo esperienza anche noi - non è solo sentimento, spontaneità, ma richiede dedizione, sacrificio, impegno, richiede anche che si rispettino delle regole. Però non possono essere queste il fine, mentre sono solo mezzo, aiuto per vivere meglio il valore. Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato.


In che cosa l’affidamento a Maria ci aiuta a vivere questa parola di Gesù? Sappiamo che affidarci nello spirito kolbiano significa vivere una relazione autentica con lei, sentirci figli amati, ricorrere al suo aiuto e alla sua protezione. Significa, in sintesi, amarla e lasciarsi amare, lasciarsi guidare non perché costretti ma perché ci si fida di lei. Significa prendere sul serio la parola di Dio e assecondala, adattarci alle sue esigenze, perché è l’amore che ci spinge, è l’amore che ci fa rispondere con altrettanta apertura all’immenso dono che Gesù fa di se stesso. Se dovessimo esprimere in poche frasi cosa sia il cristiano diremmo che è una persona che ama, ma di un amore a perdere, non possessivo, ma oblativo, aperto, che si dona, che espande il suo profumo e la sua vita perché ognuno sia felice. Questo è l’amore di Maria per noi, modellato su quello di Dio. Ci ama e vuole vederci felici, capaci di accogliere anche noi l’amore e viverlo fino in fondo. 

sabato 21 ottobre 2017

Spirituale a 360°

Rendete a Cesare e rendete a Dio…  (Mt 22,15-21). Il Vangelo di questa domenica ci raggiunge con una frase di Gesù diventata proverbiale. Cerchiamo di capire da dove nasce e cosa significa. I farisei in combutta con un altro gruppo, gli erodiani, sostenitori di Erode, cercano di far dire a Gesù qualcosa per cui accusarlo. Gli chiedono se è lecito o meno per un ebreo pagare la tassa ai Romani. Se Gesù rispondeva di sì, significava che era dalla parte degli occupatori, se diceva di no, significava che era un oppositore al regime e un rivoluzionario politico. E Gesù, che li chiama apertamente ipocriti, dimostrando di leggere nei loro pensieri, si fa dare una moneta utile per pagare la tassa e poi chiede a loro chi ci sia raffigurato sopra. Alla loro risposta “Cesare”, replica dicendo di rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Non sta al loro gioco, dunque, e prende la parola per esprimere un principio importante. Esiste una dimensione terrena organizzata secondo delle regole, dei ruoli, delle realtà che vanno vissute con impegno e responsabilità, ed esiste la dimensione verticale, fondamentale, essenziale della relazione con Dio che va vissuta con tutto il cuore e anch’essa con responsabilità. 

Tutto quello che è necessario fare sulla terra - lavoro, obblighi civili, adempimenti vari - va fatto con cura e attenzione, sapendo che si tratta di ambiti nei quali si esprime quello che poi si vive a livello interiore, nella relazione con Dio. La cura, la responsabilità verso l'esterno è la forma che assume l’amore, è il modo in cui  l’amore si concretizza. Nessuna scissione dunque per Gesù! Non c’è lo spirituale da una parte - come se fosse un campo immateriale e privato - e il materiale dall’altro, che dovrebbe andare per conto suo, non si sa come poi, dal momento che siamo noi stessi a imprimere nelle cose quello che viviamo dentro. Un messaggio sconvolgente per chi è sempre pronto a vedere quello che non funziona e che non quadra nello Stato e nella società, e non si chiede se per caso stia contribuendo o meno con la sua coerenza di vita.


Ci sembra di vedere nella discepola fedele di Cristo, e cioè sua madre Maria, la realizzazione di questo assunto. Mai Maria ha sognato una vita senza responsabilità o doveri, facile e comoda, ma ha accettato e si è resa disponibile nei confronti della realtà tale e quale le si è presentata. Ha assolto tutti i suoi obblighi e lo ha fatto con lo stesso amore con cui ha avvolto Gesù nelle fasce poco dopo la sua nascita. Prenderla per madre, viversi come figli, significa anche seguirne l’esempio, imparare a fissare l’attenzione sulle sue scelte decise e coerenti, mai di compromesso. Un fare che è in linea con l’essere, che poi è la meta verso cui ogni giorno siamo chiamati a orientarci, tenendo insieme le opposte tensioni tra ciò in cui crediamo e ciò che facciamo. 

Sì, dare alle realtà terrene il frutto della propria relazione con Dio significa avere capito che siamo un’unità e che se siamo coerenti con noi stessi e rispettosi di noi stessi, non possiamo non prenderci cura di questo mondo e di tutte le realtà terrene. Perché non possiamo amare Dio senza volerlo far entrare in qualunque realtà contattiamo nel nostro cammino. Un Vangelo responsabilizzante, austero, duro e bellissimo; pagine che ci fanno ammirare la dignità di Gesù, che ha impresso il suo sigillo d’amore anche nel più piccolo e insignificante gesto, anche nel prendere tra le mani la moneta del tributo.

sabato 14 ottobre 2017

Invito alla gioia

“Ho preparato il mio pranzo, venite alle nozze”. Questa domenica Gesù ci fa entrare nella dinamica d’amore e di chiamata di Dio attraverso il racconto-parabola del re e del banchetto di nozze (cf. Mt 22,1-14). C’è un re che organizza una festa grandiosa di nozze per il figlio e ci sono gli invitati a cui è rivolto l’invito. L’invito del re è davvero allettante: c’è cibo in abbondanza, vini pregiati e ogni tipo di ghiottoneria. Oltre a un ambiente accogliente e gratuito in cui trovarsi a proprio agio, felicemente nutriti e soddisfatti in tutte le necessità ed esigenze. Saremmo propensi tutti ad accettare un simile invito. Se, quando siamo fuori affamati, qualcuno ci invitasse nel migliore ristorante della città, andremmo a gambe levate.

Ma scopriamo invece che gli invitati rifiutano uno ad uno. Quello che colpisce è che ognuno ha qualcosa di “proprio” da difendere. Davanti a un re che invita alla “sua” festa, a entrare nella sua mentalità e nel suo mondo, si preferisce darsela a gambe e voltare le spalle, per tornare a chiudersi nel “proprio” mondo. Qui vediamo tutta una serie di resistenze interiori a volte dure come macigni dietro le quali l’uomo può arrivare a trincerarsi, difendendo coi denti un possesso che è rifiuto della relazione con Dio e con gli altri. Qui vediamo tracciata l’ombra nera dell’individualismo, della chiusura narcisistica di cui il Papa sta tanto parlando. Principale causa dei tanti no detti a Dio che chiama. Eppure, pensiamo noi, si tratta di un invito alla festa, si tratta di festeggiare, di felicità. È vero, però, che per assumere un abito nuovo, direbbe san Paolo, bisogna lasciare il vecchio. C’è una trasformazione del cuore da operare.

Perché la festa è sua e anche noi per festeggiare dobbiamo gustare le sue stesse gioie. Avere il suo palato, il palato del re. Nella Bibbia si parla tanto degli idoli preferiti all’unico Dio vivente: ma l’idolo più insidioso non è una cosa, è l’io stesso dell’uomo, il suo ego non convertito. È come quando preferiamo credere di più a quello che pensiamo noi piuttosto che a quello che ci suggerisce la Parola. L’affidamento a Maria, puntando sulla fiducia, che è credere prima di tutto e molto di più a Dio che a qualunque altra cosa, influisce sul nostro spirito in maniera molto costruttiva, facendoci gradualmente maturare e permettendoci di lasciare pian piano la presa dalla nostre certezze-gabbie per sperimentare un’aria buona, libera, di festa, in cui nella ritrovata relazione con Dio e con lei recuperiamo anche noi stessi e il nostro vero sé.

sabato 7 ottobre 2017

Vigna amata

La pietra scartata diventa pietra d’angolo, ovvero laddove l’uomo cerca di imporre la sua logica di potere, Dio ricrea cose nuove proprio a partire da ciò che è stato rifiutato e negato. Gesù, nel Vangelo di questa domenica (Mt 21,33-43), affronta i capi religiosi schierati contro di lui, in un momento cruciale perché si è ormai vicini alla sua passione. E li affronta raccontando loro una parabola, nella speranza che la sua parola possa scalfire la durezza del loro atteggiamento.

Una parabola forte, drammatica, che scuote e interpella. Gesù racconta di un uomo che possedeva una vigna. E il pensiero corre subito al popolo d’Israele, rappresentato appunto nella Bibbia come la vigna amata dal suo padrone, Dio. A questa vigna il padrone dedica ogni cura e attenzione, circondandola di una siepe, fornendola di un torchio per fare il vino, costruendovi una torre. Poi la dà in affitto a dei contadini perché la lavorino e la facciano fruttificare. A suo tempo ritornerà a chiedere i frutti. Quando arriva il momento, manda alcuni servi, e inaspettatamente questi vengono malmenati, rifiutati e alcuni anche uccisi. La scena si ripete al secondo invio. Infine decide di mandare suo figlio, avendo fiducia nel fatto che avranno rispetto visto il suo legame col proprietario. Ma i servi si incattiviscono ancora di più, lo portano fuori della vigna e lo uccidono (così come Gesù, che sarà ucciso fuori della città, pena destinata ai bestemmiatori).

Interessante il fatto che Gesù stia tratteggiando il loro ritratto, mentre loro, che pure stanno ascoltando, non si lasciano neppure sfiorare dal pensiero di poter essere i protagonisti. Ironia vuole che Gesù gli chieda un parere sulla storia e in particolare cosa farebbero loro a dei servi simili. La loro risposta è sconvolgente: li uccideremmo! Cioè come a dire, noi siamo degni di morte. Segno della contraddizione nella quale l’uomo cade quando chiude la mente alla verità e si incaponisce nella sua autosufficienza. Quando non gioisce di avere un Dio che è Padre e al quale è legato da un vincolo d’amore e di fiducia.

Il commento di Gesù porta molto lontano. Gesù parla di una pietra scartata che diventa la perla preziosa dell’edificio, la pietra d’angolo. Questo perché si trova  a un altro livello, che non è quello dei capi religiosi. La loro immagine di Dio è di un Dio punitore. Gesù, accettando il cammino dell’umiliazione e della morte per amore, contraddice questa visione  e mostra invece il volto di un Dio misericordioso e innamorato delle sue creature, tanto da scegliere la follia della croce.

Questa via è stata anche quella di Maria. Se Gesù era Dio e perciò ci risulta più comprensibile la sua capacità di arrivare a una simile donazione, non lo stesso nei confronti di Maria. Maria era solo una creatura, di fede israelita e quindi con una adorazione vitale per il Padre e la sua volontà. Ma da qui a percorrere lo stesso cammino rivoluzionario di Gesù, fatto di dolore e di riscatto, ce ne voleva. E Maria in questa sua fortezza è stata davvero insuperabile. Ha piegato il capo alla vita e ha obbedito con tutte le forze a quanto gli eventi stessi andavano delineando per lei. Maria ha compreso che lo scarto del mondo è prezioso agli occhi del Padre, che sono fissi su chi lo teme, come dice il Salmo, su chi spera solo in lui. E lo ha compreso non sui libri, ma nell’esperienza cocente della sua vita dietro al figlio. Solo l’amore le ha permesso di percorrere la stessa via di Gesù. Solo l’amore le ha acceso negli occhi la certezza che al di là della morte sarebbero germogliare nuove vigne e nuovi frutti. Solo l’amore le ha fatto comprendere che la vite vera non può essere tagliata perché è essa stessa a garantire la vita a ogni tralcio.  


La Via della felicità